Jul 05 2011
di Grazia Russo
Un’affollata sala dell’Oratorio, all’ultimo piano della libreria Melbook di Ferrara, ha ospitato il 29 giugno la presentazione di un libro che parla di vite spezzate e di Stato. Scritto dal sociologo ed ex senatore della Repubblica Luigi Manconi e da Valentina Calderone “Quando hanno aperto la cella” affronta tredici storie di vite tragicamente interrotte. Le numerose vittime dello stato, coloro che come Federico Aldorvandi, Stefano Cucchi, Aldo Bianzino, Giuseppe Uva hanno trovato la morte all’interno di apparati statali sono raccolte in questo testo che “nasce dall’esigenza – sostiene Manconi – da parte dei familiari delle vittime, di non lasciar cadere le proprie vicende nel dimenticatoio. Famiglie che lottano non cercando vendetta nei confronti dello Stato, ma che pretendono chiarezza da questo”.
Sì, perché in questo libro si parla molto anche dello Stato, e dunque di tutti noi che ne facciamo parte in quanto cittadini e parte dell’opinione pubblica, che sostiene Patrizia Moretti “necessaria per evitare che ciò che è successo possa accadere ancora. L’informazione sana che passa anche attraverso internet, diventa il mezzo per guardare al futuro e sperare in meglio, consegnando ai ragazzi una realtà diversa per il futuro”. L’informazione dunque non è fuori dai giochi, ma anzi se da un lato è detta fondamentale per la diffusione delle notizie e delle foto delle vittime, che hanno mostrato in modo inequivocabile le ferite e i volti lividi spesso di giovani ragazzi, dall’altro viene nel corso della presentazione pesantemente accusata di aver, in alcuni casi, infangato il nome di chi dal carcere ne è uscito solo una volta morto. E’ il caso di Stefano Cucchi “il piccolo spacciatore di Torpignattara” o di Federico Aldrovandi definito “eroinomane” in barba alle perizie eseguite sul suo corpo. Non deve passare l’idea che si tratti – conclude Maconi – “di storie di tossicomani, perché le percentuali parlano di un 33% di tossicomani in Italia e di questa percentuale solo un ristretto numero è dato dalla componente degli spacciatori. Sono storie che riguardano tutti, perché le storie di questi ragazzi in nulla differiscono dalle vite medie di moltissime altre persone”.
È un dato molto triste considerare che in Italia in carcere si muore e se alcuni sono suicidi, altri non lo sono. Si muore durante un arresto, una manifestazione in piazza o a seguito di un trattamento sanitario obbligatorio. Chi muore lascia agli altri il compito di imparare a destreggiarsi tra burocrazia e leggi per cercare giustizia e verità. Tutti i familiari delle storie trattate nel libro si sono trovati e si trovano a distanza di anni ancora di fronte a moltissime difficoltà per ottenere la verità. Un ragazzo che per lo sballo di poche ore muore in carcere è il massimo scandalo dello Stato di diritto, il quale da Costituzione ha il compito di tutelare i detenuti affinchè non subiscano situazioni che ne degradino la persona, lasciando al carcere il compito di rieducare, per un reinserimento in società. Ciò che si vede però è come in un numero altissimo di situazioni ciò che si realizza è l’esatto contrario. Quando hanno aperto la cella ci racconta tutto questo, senza effetti speciali e senza retorica, perché come sostiene Rudra Bianzino oggi diciassettenne, ma che aveva solo 14 anni quando suo padre è stato ucciso: “Quelle del libro non sono storie, sono verità”.
Scritto da: Grazia Russo
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