Feb 19 2013
di Grazia Russo
“Per una serie di motivi legati al momento storico culturale che stiamo attraversando, devi leggerti questo libro” . È partito tutto così. Da queste parole di un mio carissimo amico, attento lettore e sapiente oratore. Sono andata in libreria e l’ho comparato. L’ultima copia rimasta, mi aspettava, che sia stato un segno? Entro a cinque minuti dalla chiusura della libreria, lo cerco ed eccolo nascosto dietro altri libri disposti sapientemente in ordine alfabetico, Bianciardi Luciano “La vita agra”.
Subito fuori dalla libreria è iniziato il rito: leggo ad alta voce l’ultimo periodo dell’ultima pagina. Lo faccio sempre: mi piace vedere quali sono le ultime parole che l’autore ha scelto per chiudere il libro. In questo caso si parla di silenzio e di assenza. In un certo senso è proprio ciò che caratterizza interamente il libro, che uscito nel 1962 attraversa gli anni del boom economico italiano, della folle corsa verso le facili illusioni di una modernità che stava investendo, più che interessando, il nostro paese. Il periodo d’oro dell’economia, della cultura, dell’emancipazione femminile e della corsa nelle grandi città del nord alla ricerca di un lavoro nuovo, diverso, di fabbrica, che potesse dare una nuova chance, al contadino di ieri che si ritrovava operaio.
Il frastuono della modernità, che irrompe nella vita dell’Io voce del romanzo, è visto come un corpo estraneo, che infastidisce e disturba il flusso di pensieri, la possibilità di trovare la concentrazione giusta per scrivere o tradurre. L’Io che parla, potrebbe essere l’autore, un personaggio, una semplice voce, ma poco importa. Per me ad accompagnarmi nelle pagine del romanzo è il mio “amico consigliere fidato” di buone letture, che giudica quanto gli sta intorno con uno sguardo attento alle dinamiche sociali. È una satira della società di cui fa parte, del mondo editoriale che si adegua alle mode del momento, al lavoro che è costretto a svolgere, perché per l’insoddisfazione cronica di tutto ciò che lo circonda, considera il lavoro quasi come un fardello, un dovere da assolvere che non porta né a piacere, né a soddisfazione e così scrive: “Io non capisco tanta gente che sgobba per farsi la casa bella nella città dove lavora, e quando se l’è fatta sgobba ancora per comprarsi l’automobile e andar via dalla casa bella. Io poi lì automobile non l’avrò mai, e nemmeno la casa bella; debbo contentarmi di lavorare per restare come sono, e lavorare sempre di più, anzi, perché con il continuo aumento dei prezzi, per restare come sono occorre un guadagno ogni anno maggiore”.
È un’analisi attualissima e acuta di quella che poteva essere la realtà quaranta’anni fa e la dimostrazione di come nulla apparentemente sia cambiato. Il modo per venir fuori da questo sistema però c’è e ce ne dà una ricetta poetica e utopica al punto giusto: la rivoluzione deve cominciare “in interiore homine. Occorre che la gente impari a non muoversi, a non collaborare, a non produrre, a non farsi nascere bisogni nuovi, e anzi a rinunziare a quelli che ha”. Lasciando tutto, rinunciando a tutto, plastica, metalli, carta, fino ad arrivare alla rinuncia dell’uso del denaro, che non porterà a situazioni di scambio tramite baratto, ma farà posto ad un nuovo tipo di economia “il donativo”.
Ciascuno donerà al suo prossimo quasi tutto ciò che ha e avendo rinunciato a quasi tutto, ciò significa donare quasi nulla, lasciando fuori dalla porta “con fermezza, ma dolcezza i rappresentanti di commercio, gli assicuratori e i preti”, che continueranno ad inseguirsi con gli “occhi iniettati di sangue” per farsi pagare una cambiale, morendo poco a poco di infarto, saranno destinati a scomparire tutti, lasciandosi guardare da chi ha cambiato la propria vita e vive del necessario, a contatto con un mondo più naturale e dove il problema del tempo libero “non si porrà più, essendo la vita intera una continua distesa di tempo libero”.
Scritto da: Grazia Russo
Data: 19-02-2013
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